Tutti noi abbiamo a che fare con l’ansia. Compare prima di un esame, di una prova importante, di un incontro significativo, oppure -a volte- senza apparente motivo. L’ansia è uno stato fisiologico che non è inadeguato provare: è la risposta dell’organismo a uno stress. L’ansia consiste di una serie di reazioni fisiche di attivazione, di pronto-intervento. Ad esempio, aumenta il battito cardiaco, il ritmo del respiro, induce tensione muscolare. Si tratta di reazioni decisive per l’adattamento, in quanto si attivano risposte comportamentali efficaci per rispondere alle sfide dell’ambiente: privarci completamente dell’ansia ci renderebbe più indifesi. L’ansia è dunque un segnale che indica all’organismo di attivarsi per affrontare una situazione. Ma quand’è che l’ansia smette di essere una normale ed efficace reazione a un possibile pericolo e diventa invalidante?

Molte forme di disagio psicologico si esprimono attraverso l’ansia e sono risolvibili con la psicoterapia. Ad esempio, una ragazza di 22 anni, che chiameremo Marta, chiede una consulenza per via di un’ansia paralizzante che la ostacola nella vita privata e nel lavoro. Marta è una parrucchiera, con un problema: al lavoro si blocca, le tremano le mani. Nella prima seduta racconta: “Prendo le forbici e comincio a paralizzarmi… il tremore aumenta al punto di non riuscire neppure a tagliare i capelli alla signora. La cliente ovviamente si accorge di questo ed io entro nel panico totale…allora scoppio a piangere e lei mi domanda cosa mi succede, ed io do delle risposte confuse, non riesco neppure a fare un discorso logico…”. Marta , aiutata dalla terapeuta, riflette sul fatto che la reazione ansiosa si attiva perché si sente giudicata dagli altri. Inoltre, con il procedere della terapia, durata un anno, sono emersi ricordi riguardo alla sua infanzia. Uno di questi sembra particolarmente significativo: il padre (che era in un buono stato di salute) le diceva sempre “vieni da papà che magari domani non c’è più” o “ma se papà muore come fai?”. Parole che inducono una paura di perdita, di rimanere senza protezione, in una relazione genitore –figlio che dovrebbe invece rassicurare .Queste comunicazioni possono indicare uno stile di attaccamento preoccupato, un modello emozionale dell’intimità describile in termini di ansia. In altre parole, se il genitore ha difficoltà a contenere le sue emozioni e quelle del figlio, si ostacola il naturale processo con cui si impara la regolazione dell’ansia. Una volta cresciuta la persona può avere difficoltà a gestire le sue emozioni che vengono vissute come minacciose, insensate, improvvise e senza possibilità di controllo. Spesso sembra, infatti, che l’ansia capiti all’improvviso senza poter operare una riflessione e quindi una scelta. Tuttavia, visto che apprendiamo l’ansia così come impariamo altri comportamenti, si possono imparare altri modi per esprimerla e gestirla . Se l’ansia è un segnale che ci dice qualcosa, dobbiamo capire che cosa, e questo può avvenire promuovendo l’auto-riflessione.

Come “guarire” dall’ansia? Il terapeuta aiuta la persona a capire che i sintomi ansiosi hanno un significato, una possibile funzione nella sua vita. Nell’esempio, Marta è riuscita con la psicoterapia a riflettere su ciò che le succede e a collegare i sentimenti di ansia alla vergogna e al senso di svalutazione di se stessa. Marta ha imparato a gestire l’ansia con successo. Non è più vista come qualcosa da cui guarire ma che ha una funzione: prevenire il senso di vergogna che deriva dall’essere giudicata perché è lei stessa che si considera inadeguata e che si svaluta. Ora ha acquisito la capacità di auto-rassicurarsi, e sa riconoscere quando sta per avvertire un senso di ansia e di “crollo”. In altre parole, dispone di più strumenti per “organizzare l’esperienza ansiosa” e gestirla diversamente.


Dott.ssa Ilaria Spoletini – Dott. Raffaele Pandolfo